di Francesco Soze
“Prima di tutto ci piaceva la parola” – il capobottega proponeva risposte sicure alle domande serrate dell’intervistatrice, continuando a far fluttuare le dita inanellate, luccicanti e segnate da inchiostro più o meno perenne - “poi è sinonimo di qualcosa fatto per bene, alla perfezione, anche con una particolare… certezza, se vogliamo.
Vede, la costruzione della parola…” – qui tentava di far valere gli anni universitari bolognesi passati nella facoltà di lettere – “menare, originariamente significava condurre, quindi menare il dito, condurre il dito con la stessa sicurezza che può applicare un libraio alla ricerca di un libro, o una merciaia che cerca una scatolina in una merceria.
Ci piaceva molto anche questa immagine sensoriale di far passare il dito fisicamente tra cassetti e scatole. E da lì il nome”.
Credeva di aver detto tutto, con la netta sensazione di aver regalato fin troppo tempo alla non più giovane giornalista di una testata locale che, perlomeno, avrebbe offerto un bell’articolo: pubblicità in cambio di pazienza, baratto sopportabile.
“Perfetto, le foto le ho fatte, il materiale c’è…
entro la settimana credo che possa uscire l’articolo!” – l’inviata utilizzava un tono decisamente troppo squillante ed entusiasta, soprattutto all’indomani di una bufera – “direi che possiamo salutarci e grazie mille!”
“Ma ringrazio io lei per lo spazio e la cortesia.
Mi scuso ancora per il lago all’ingresso… ma la neve ha fatto letteralmente un disastro! Non me lo spiego, anche molti capi sono fradici” – non traspariva, ma all’interno della propria intima ragione volteggiavano bestemmie colorite ed innovative dovute alla rovinata fatica nella costruzione della vetrina la notte precedente.
La risposta della reporter non si fece attendere, banale, immediata e fastidiosa: “Ah, ma cosa non fa l’umidità al giorno d’oggi!” – sentenza che avrebbe fatto perdere la pazienza ad un monaco tibetano.
Continuando a sorridere Michael, il titolare di Menadito, un dandy prestato a Forlì per proporre abiti fuori dal comune, poté finalmente condurre, o menare, la giornalista all’uscita chiudendole la porta alle spalle, non prima di aver scalciato con il piede una modica quantità di neve finita sul gradino d’ingresso probabilmente dal via vai del mattino.
C’era ancora la neve, anche se non nevicava più da qualche ora.
Un affaticato e congelato sole aveva fatto capolino su Forlì, non dalle primissime ore del mattino, neppure dalle prime, diciamo dalle seconde.
I timidi raggi solari non avevano però impedito il verificarsi di qualche disastro cittadino causato dalla copiosa caduta di fiocchi della notte precedente. Michael era venuto a sapere, per esempio, che un albero era caduto vicino a viale Kennedy, un nome visionario per un viale secondario di Forlì; qualche tetto fuori città aveva ceduto al peso della neve; un paio di automobili evidentemente sprovviste di dotazioni invernali avevano terminato la propria traiettoria slittando verso cancelli e guardrail.
Con tutto il rispetto per i concittadini ora a Michael interessava guardare in casa sua.
Non aveva avuto tra i migliori pensieri della sua vita quando al momento dell’apertura si era trovato l’elegante scarpa inglese a mollo in un dito di acqua.
“Ma che cazzo è successo” – si era ritrovato a pensare, guardando gli assurdi danni.
Oltre al principio di allagamento, anche gli abiti del manichino erano intrisi di acqua, la lista dei prezzi per i capi esposti illeggibile, una sciarpa appesa inizialmente in una gruccia poco distante dall’uscio aveva deciso di trasformarsi in straccio, accartocciata sul parquet. Sembrava praticamente tutto fuori posto, come se Menadito avesse passato la notte precedente a cielo aperto, vittima passiva delle intemperie.
Era il momento di constatare i danni subiti dagli abiti scelti per vestire il rappresentante inanimato del negozio: la sciarpa ed il cappotto erano fradici, i pantaloni… pure così come le scarpe, panciotto e camicia intatti e asciutti.
“Per fortuna. Almeno il cappotto tiene bene! Pensavo peggio… ma il cappello?” – si chiedeva agitando la testa da una parte all’altra per poi scovarlo poco distante, appoggiato sul tavolo da lavoro del laboratorio. “Mah. L’avrò raccolto sovrappensiero quando sono entrato” – ragionava mentre passava lo sguardo su ogni millimetro della tesa alla ricerca di imperfezioni. Sembrava intatto.
Accanto al copricapo erano impilati una decina di libri tascabili, tutti grandi classici tra romanzi e poesia, comprati per abbellire i capi esposti facendoli spuntare dalle tasche: Elogio alla follia, Antologia di Spoon River, Il ritratto di Dorian Gray, ecc.
Un po’ per scrupolo e un po’ come riflesso incondizionato ci passò sopra il palmo della mano come per spolverarli. Quelli erano bagnati.
Dopo l’ennesima, surreale scoperta era arrivato il momento di una boccata d’aria mista a tabacco.
Si ritrovò a fumare a braccia incrociate, sguardo fisso, perso e concentrato verso la porta di Menadito spalancata per cambiare aria, anche da questa prospettiva sembrava fosse passata all’interno del negozio una tempesta di neve a forma di polipo, con tentacoli sgocciolanti e congelati pronti a toccare cose precise, dimenticandosi di altre.
“Ma hai visto che casino?” – chiese allo stoico titolare del negozio di dischi appena sopraggiunto da tre civici di distanza. Alto, capelli lunghi non troppo curati. Look da chi ha sempre vissuto la musica come valvola di sfogo e ribellione, con il sogno del grande palco.
“Incredibile” – rispose allungando il lungo collo per scrutare l’interno.
“Ho tantissimi abiti bagnati fradici, alcuni sono caduti per terra… e della neve è arrivata a bagnare una decina di libri che tenevo sul tavolo… non so come sia possibile, ci sarà uno spiffero ma mi sembra strano, non me ne sono mai accorto.”
“Ah ma io uguale…”
“Come uguale?”
“Uguale. Bagnato per terra, bagnate le copertine dei CD in vetrina, bagnati alcuni vinili che tengo sugli scaffali… ma la cosa più incredibile è un’altra…”
“Cioè?”
“Tre album li ho trovati fuori dal negozio, per terra sulla neve.”
CONTINUA.
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