Di Francesco Soze
FORLÌ – TEATRO “DIEGO FABBRI” - 1 FEBBRAIO, ORE 21.10 – ROBERTO BENIGNI LEGGE LA BIBBIA
Saranno stati tutti gli eventi senza spiegazione capitati in quei giorni, sarà stata la mole di neve caduta ovunque che rendeva più faticosi gli spostamenti, ma a Michael di andare allo spettacolo di Roberto Benigni quella sera, proprio, non andava.
Non trovava le forze di essere simpatico ed educato dialogando con persone che faceva finta di riconoscere, non aveva voglia di restare concentrato due ore sulla performance di Roberto Benigni che, diciamocela tutta, gli stava anche parecchio sulle palle.
“Dobbiamo andarci, Michael; dopo lo spettacolo ce lo fanno conoscere e possiamo regalargli qualcosa.
Anche a me non va, te lo giuro. Magari dopo ci facciamo una birretta!” – tentò di
spronarlo Emanuele, il co-fondatore di Menadito; riconoscibile per lo stesso stile nel vestirsi,
stessa parlantina sciolta, stessa dedizione alla cura del dettaglio del collega più minuto e barbuto.
In altri tempi, probabilmente, li avremmo visti in qualche trasposizione di “Oliver Twist”, ma, per il momento, si sarebbero dovuti accontentare di rivoluzionare lo sguardo di forlivesi e non verso gli abiti.
Michael continuava a rigirarsi il volantino dello spettacolo tra le mani.
L’immagine dell’attore toscano con le
braccia spalancate verso il pubblico e quel sorriso in faccia non lo lasciava sereno.
“Ma qualcuno lo ha mai visto incazzato questo?” – pensò tra sé e sé.
Aveva passato tutto il giorno alla ricerca di una scusa per sparire dalla circolazione all'orario di chiusura e non presentarsi al teatro, senza riuscirci.
Così, alle 20 in punto, a poco più di un’ora dallo spettacolo si convinse:
“Va bene, andiamo.
Birra prima… e birra dopo lo spettacolo però!” - disse minaccioso a Emanuele
“Affare fatto.” – rispose il socio.
Terminarono in maniera sbrigativa gli ultimi accorgimenti per la chiusura e alle 20.05 erano già con la birra in mano al bancone del bar vicino al negozio, sciolti e distesi, pronti a farsi una buona mezz’ora di chiacchiere.
Attilio aveva osservato tutta la scena nascosto dietro al muretto che delimitava i giardini Orselli,appena di fronte a Menadito.
Uno sguardo al barbuto, uno sguardo all’altro ragazzo, quello più alto.
E uno sguardo all’ipnotico signore che gli aveva tenuto compagnia nelle notti precedenti,
immobile per tutto il tempo della conversazione.
Non poteva aspettarlo come era successo nei giorni precedenti, il tempo stringeva… bisognava andare in scena!
Aspettò di vedere i due soci scomparire dietro l’angolo con via delle Torri per balzare fuori dal suo nascondiglio, come faceva ai tempi della guerra, ed avvicinarsi alla vetrina di Menadito.
“Hey!” – disse sbracciando attraverso il vetro.
Il buio non aiutava di certo la comprensione di eventuali movimenti dentro al negozio.
“Heyyyy!!! Sono Attilio, sono!” – il tempo passava e ogni tentativo di Attilio di richiamare
l’attenzione del suo nuovo amico finiva nel nulla.
20.10. Troppo tardi.
In uno scatto di lucidità Attilio girò i tacchi nella neve, creando una buca
ghiacciata, ed incominciò ad incamminarsi verso il teatro.
Dopo pochi passi sentì qualcosa appoggiarsi sulla sua spalla e, un attimo più tardi, pronunciare il proprio nome:
“Attilio”.
Trasalì, ma una volta giratosi tutto apparve più chiaro e felice.
“Ooooh! Ce l’hai fatta, ce l’hai! Stavi dormendo, stavi?”
“Sì, diciamo di sì.” – rispose il misterioso abitante di Menadito. Sempre lui, sempre uguale.
Cappello, cappotto giallo come il mare, panciotto e grande sciarpa a coprirgli il volto.
“Ma quando sei uscito, quando? Non mi sentivi che ti chiamavo, che ti…?”
“Sentivo. Non è così facile raggiungerti.” – il tono sembrava decisamente più cupo di quello
utilizzato nella notte precedente, quasi sconfitto; ma Attilio, che riusciva a concentrarsi solamente sul risvolto positivo della vita, non ci fece caso.
Aveva l’adrenalina a mille e ora che il suo punto di riferimento lo aveva raggiunto, era pronto a salire sul palco a dire la sua per rovesciare il mondo intero.
“Bene Attilio, andiamo verso il teatro. Mostrami la strada. Sai da dove si passa per raggiungerei i camerini?”
“Ma certo che lo so, che lo… sai quante volte mi sono cambiato lì prima di andare in scena, prima di…?” – rispose trionfante Attilio.
“Quante?” – chiese lo sconosciuto non cogliendo la retorica.
“Molte!” – replicò Attilio spalancando il volto dall'entusiasmo.
I due si incamminarono velocemente verso il teatro Diego Fabbri. Erano le 20.15.
“Riusciamo a berne un’altra?” – Michael aveva un piano ben preciso: arrivare al teatro ben
inebriato così da godersi lo spettacolo scongiurando noia e frustrazione.
“Mi sa di no… sono le 20.30! E mi sono ricordato che devo passare di nuovo, giusto un attimo, in negozio per prendere la macchina fotografica.
È fondamentale.” – rispose Emanuele mandando in frantumi il piano impeccabile ordito dal socio.
“Va bene, ti accompagno… però ne prendo una da passeggio!”.
Dopo aver ritirato una bottiglia di vetro verde da 33cl, colma di birra, alla faccia delle ordinanze comunali antidegrado, i due soci ripercorsero la strada fatta qualche minuto prima, imboccando via Maurizio Quadro ed arrivando fino al civico 26 per recuperare il mezzo che avrebbe immortalato per sempre Roberto Benigni con il gilet blu di Menadito.
“Ma che c…” – dissero quasi in coro davanti alla vetrina.
“Guarda, lo sapevo… lo sapevo! In questi giorni era tutto troppo strano!
Questi sono dei professionisti… hanno le chiavi! Sono entrati! Anche nel negozio di dischi!
Lo sapevo, te lo giuro lo sapevo!”
Michael non riusciva a farsene una ragione, i ladri dovevano aver aspettato che i due uscissero per intrufolarsi in quella breve mezz’ora.
“Cerchiamo di rimanere calmi” – Emanuele prese in mano la situazione, aprendo la porta e
dirigendosi cauto ma celere verso la cassa.
Non mancava nulla. Nulla di nulla. A parte gli abiti del manichino, privazione che aveva
immediatamente allarmato i due.
“Saranno anche dei professionisti… ma si sono fottuti solamente gli abiti del manichino! Che ladri sono, scusa?”
“Ma sei sicuro?” – la notizia tranquillizzò Michael che con una rapida occhiata perlustrò tutto nel negozio.
In effetti, non solo non sembrava mancare nulla, ma era tutto decisamente in ordine. Perfetto.
Come era solito lasciare il negozio.
“Michael, facciamo così… andiamo a teatro. Dopo torniamo qui per verificare meglio.”
“E se questi tornano?”
“Eh, ruberanno due magliette… cosa ti devo dire?” – l’ironia di Emanuele piacque ai due che si concessero un sorriso, interrompendo così, l’angoscia e l’incredulità del momento.
“Ora basta forzare quest’inferriata, basta…” – Attilio stava mostrando il modo più semplice per arrivare nella zona dei camerini del teatro Diego Fabbri eludendo la sorveglianza: scassinare una finestra di via dall’Aste, la stradina che costeggiava il maggiore teatro forlivese, quello con ingresso su corso Diaz.
“Ah, pensavo conoscessi un metodo più… consono. Ma se è efficace, nulla dire! – obiettò senza troppa convinzione il misterioso amico di Attilio.
In un attimo erano dentro. Un piccolo corridoio con quattro porte, due per alto, sui muri decine e
decine di fotografie di attori passati per quegli ambienti.
“Questi sono tutti miei amici, sono...” – continuava a ripetere Attilio passando con una mano sopra ad ogni immagine, contento e quasi commosso, fino ad arrivare, spolverando quelle istantanee, alla porta sulla quale brillava una targhetta color oro che recitava: ROBERTO BENIGNI.
“Non resta che convincere Roberto a lasciarmi la scena, non resta…”
“Non resta che convincerlo, sì.”
Toc. Toc. “Avanti!” – la voce di Benigni rimbombò nel camerino.
“Roberto, sono Attilio, sono…”
“Attilio! Ma da quanto tempo! Fatti dare un abbraccio! Ma come stai? Non sei invecchiato per
nulla eh!... non è invecchiato per niente!” – disse ridendo rivolgendosi all’elegante sconosciuto.
“Ciao Roberto, ciao! Sto bene, tu??? Ho visto che hai vinto un Oscar, hai! Anche io ne ho due, ne ho…”
Roberto Benigni ed Attilio non si vedevano dall'estate del 1989, periodo nel quale girarono
insieme “La voce della luna”, l’ultimo film diretto da Federico Fellini.
Benigni doveva aver conservato un bellissimo ricordo di quell'educato e simpatico forlivese, generoso e sempre volenteroso nell'aiutare tutti.
Avevano passato tantissimo tempo insieme, nelle pause, con Paolo Villaggio a fare a gara su chi facesse rimbalzare più volte i sassi sull'acqua e a progettare scherzi.
Non si erano mai più visti, nonostante il comico toscano avesse provato più volte a chiamarlo al telefono senza ottenere risposta. Chiese in giro sue notizie. Nessuno seppe raccontargli della tragedia famigliare che catapultò Attilio dal cinema al cemento, in una notte.
Tutto successe molto rapidamente. L’elegante signore, sfruttando gli affettuosi convenevoli e il fattore sorpresa, si gettò contro Roberto Benigni, avvolgendogli la sciarpa intorno al collo e
facendolo, così, barcollare e poi cadere come un corpo morto. La testa del premio Oscar batté, inevitabilmente, sulla sedia, facendogli perdere immediatamente i sensi. Venne, poi, legato solidamente alla gamba della pesante scrivania dall’uomo col cappotto giallo, sempre con l’inseparabile sciarpa.
“È caduto, è.” – sentenziò Attilio, perennemente fuori dal mondo.
“Sbrigati, non c’è tempo da perdere! Cambiati! Hai qualcosa di più elegante?” – gli ordinò l’amico,
continuando a dargli le splalle.
“Non ho nulla, non ho Il mio armad...!”
“Ti do i miei vestiti… te li lancio, vai dietro al separé.” - lo interruppe l’aggressore, senza mai
guardarlo.
Attilio velocemente si nascose e ben presto gli caddero dall’alto i vestiti che aveva sempre
invidiato al suo amico, compresi cappotto e panciotto.
“Oh, che felciità! Come mi sta bene, come mi!” – Attilio uscì dal separé.
“Grazie mile amic…”
Lo sconosciuto non c’era più. “Sarà andato a sedersi in platea” – pensò Attilio – “Si vuole godere il mio spettacolo, si vuole. Che persona straordinaria, che.”
Ora non mancava più nulla. Era il suo momento.
Nel frattempo, Michael e Emanuele, ancora scossi, prendevano posto in seconda fila. Posti 7 e 9.
Guardare uno spettacolo di Benigni non era tra le prime cose che avrebbero fatto in quel
momento ma, rassegnati, si tolsero il soprabito e cercarono di rilassarsi.
Tac.
Di colpo si spensero le luci.
CONTINUA.
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