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SCARTI - Cap 3 – Quel matto di Attilio

Aggiornamento: 17 mar 2020

di Francesco Soze


A Forlì c’era la neve.


“Santa Madonna che freddo.”


Attilio quella notte se lo era già ripetuto centinaia di volte tra sé e sé, circondato da centimetri di neve che aumentavano e aumentavano seduto su quello che da qualche mese era diventato il suo gradino preferito di Forlì, in una via poco trafficata dai pedoni seppur al centro della città: via Anita Garibaldi, anch’ella, a sua volta così al centro della storia ma

così in disparte.

“È morta qui vicino Anita Garibaldi” – aveva già raccontato più volte a notturni avventori occasionali alla ricerca dell’ultima bevuta di giornata nell’unico locale aperto fino a tardi

della città, a due passi dal gradino di Attilio – “A Mandriole di Ravenna è morta.

Io l’ho anche conosciuta.”

Era molto semplice, dopo un rapido calcolo, definire l’impossibilità dell’incontro e quindi la mancanza di lucidità del buffo signore, complemento d’arredo della piccola via.


Barbone lo definirebbero i più, ma lui di barbona non ne aveva.

Barba tendenzialmente curata, capelli lunghi quanto basta per non definirli corti, grigi, occhi come spilli neri dai quali traspariva una certa assenza, una sconnessione nei confronti della realtà, la stessa che lo aveva costretto a trasferirsi sull’uscio di quel negozio da anni disabitato.

Attilio vestiva con quello che trovava, quello che gli amici gli regalavano.

Quelli che definiva amici erano clienti dei bar di Forlì dove il pregiudizio veniva lasciato fuori dalla porta, dove l’umanità non trovava troppi problemi nel regalare una vecchia giacca a quel matto di Attilio, che, secondo intricati aneddoti, sosteneva di essere imparentato con Stefania Sandrelli e Mussolini, di avere come nipote Pippo Baudo, di aver partecipato sì alla guerra per poi stancarsi e tornare a casa, di aver girato un film con Fellini.


Era bello parlare con Attilio, anche se a tempo determinato.

Potevi entrare in un mondo parallelo fatto di fantasia ed ingenuità, due caratteristiche che l’uomo del 2000 stava perdendo.

“Alla fine si sta bene anche qui con la neve che scotta” – sorso di vino – “Ah, che tempi, che

tempi.”

D’un tratto Attilio non si sentiva più solo come qualche attimo prima, avvertiva una presenza,

vedeva una sagoma in avvicinamento che si lasciava alle spalle il corso, ben più degno di nota, Giuseppe Garibaldi.

Così, iniziò a sbarrare gli occhi ed allungare il collo per vedere più lontano.

La sagoma si stava avvicinando, Attilio poteva riconoscere un cappello, gli piaceva.

Distanze sempre più ridotte – “Uh, che bel cappotto giallo come il mare!”.


Quasi arrivato – “Buffo soggetto!”


Era un lento incedere quello della persona che Attilio si era visto arrivare davanti, come se non avesse mai camminato prima, come se fosse ferito. L’ospite non si fece scrupoli e si sedette, o meglio, si afflosciò accanto ad Attilio abbandonando le gambe sulla neve, la schiena sul portone retrostante.

Era elegantissimo, completo di panciotto e con una grande sciarpa che gli copriva il

volto.

Attilio non badò più di tanto al viso celato, era così freddo che il particolare poteva non

essere degno di nota e poi capitava così poco spesso di avere ospiti che ogni sorta di dubbio poteva andare a farsi benedire.


“Buonasera!” – l’entusiasmo di Attilio era incontrollabile, ogni parola veniva pronunciata

spalancando lo spalancabile.


“Buonasera”, la voce dell’estraneo riecheggiava da sotto la sciarpa, quasi come se fosse

amplificata.

“Come si chiama lei, come…?”

Attilio tendeva a ripetere frammenti della frase appena pronunciata al termine della stessa, rendendo tutto, se possibile, ancora più comico.


“Non dico mai il nome ad altri, sarebbe come cederne una parte…”

“Logico, più che logico! Dico io, dico. Io sono Attilio, sono. Ho lavorato con Fellini, ho lavorato… lei

di occupa di cosa?”

“Mah, penso troppo ormai. Non so più quel che faccio, non so più dove vado, e tutto mi gira

intorno.”

“Ah ah! Eh beh… la capisco! Anche a me gira sempre tutta la testa, mi gira!”

“Prendi fra le mani la testa e non girerà.”

Attilio, che aveva la propensione a dare troppo peso alle parole della gente, non esitò e in un

secondo si ritrovò con gli occhi serrati e la testa stretta tra le mani, forse troppo forte, ripetendo ritmicamente come se fosse una canzone: “Prendo-la testa-tra-le-mani. Prendo-la testa-tra-le-mani.”

Si sentiva improvvisamente meglio. “Funziona!” - urlò all’imbacuccato sconosciuto – “Lei fa così quando sta poco bene, quando sta…?

Io di solito mi stendo qui sul mio gradino, mi stendo… ogni tanto mi risveglio che mi danno una monetina, mi danno… oppure mi prendono in giro e mi gridano cose, mi gridano… mi gridano ‘PAZZO!’, mi gridano…”


“La pazzia costruisce città, imperi, istituzioni ecclesiastiche, religioni, assemblee consultive: l’intera vita umana è solo un gioco, il semplice gioco della follia.”

Attilio era sbigottito e tornò a spalancare la bocca, strabuzzare gli occhi – “Posso costruire una città quindi io, posso…?”


Una domanda buttata lì che non richiedeva necessariamente una risposta dal misterioso e colto ospite che, infatti, non proseguì la conversazione.

“Non avevo mai pensato a costruire una città, non avevo… cioè con Federico alle volte spostavo le cose nelle scene dei film che assomiglia un po’, assomiglia… che alla fine i film sono un po’ città, sono… no?”


In un impeto di gioia balzò in piedi con le braccia verso il cielo simulando l’esultanza dei calciatori degli anni ’60.

Lo sconosciuto lo emulò, barcollando, o meglio svolazzando.

Ad Attilio venne spontaneo abbracciarlo forte.

“Uh, che magro. Decisamente molto magro, molto…” – constatò quando strinse il cappotto giallo.

“Beh, buonasera! Anzi… buon lavoro!”

I saluti di Attilio erano così, improvvisi, si sentiva in dovere di finire la scena, come se fosse

perennemente all’interno di una sceneggiatura.

Lo sconosciuto, in silenzio da minuti, si avviò nella direzione dalla quale era arrivato. Dopo qualche decina di metri la voce di Attilio si rifece viva, da lontano:

“Secondo lei quanto si può vivere aspettando costantemente il prossimo weekend, quanto si

può…?”

L’elegante e misterioso uomo alzo le spalle, non sapeva la risposta.

Attilio lo vide allontanarsi sempre di più, lasciando la scia sulla neve.

Sorrise – “Poco, si può vivere poco.”

Continuando a sorridere genuinamente iniziò a seguire la sagoma, ripassando le orme sulla neve e di tanto in tanto nascondendosi dietro a pali di cartelli stradali o davanti ai portoni, senza una reale necessità vista la nebbia e i fiocchi che facevano da filtro.


Arrivarono in corso Giuseppe Garibaldi, separati da diversi metri.

Oltrepassarono l’imponente Duomo che Attilio scrutò con ammirazione.

L’inseguimento continuava.


Nei pressi dei giardini Orselli la sagoma virò con decisione verso sinistra, Attilio quasi non se ne accorse e si appostò dietro ad un muretto per non farsi scoprire.

Dopo poco il misterioso e freddoloso individuo si mise a maneggiare contro una vetrina, per poi sparire.


Attilio si passò una mano sui capelli fradici e si avvicinò, arrivando dopo poco al civico 26 dentro al quale il soggetto sembrava appena entrato. Tutto spento, tutto chiuso.

Notò il cappotto che sgocciolava a pochi centimetri dall’ingresso ed il cappello gettato su un tavolo.


“Menadito…” – disse Attilio appoggiando una mano sul vetro, senza mai smettere di sorridere.


Batté le mani e tornò indietro, lasciando altre impronte sulla neve che cresceva a vista d’occhio,

fece in tempo a vedere delle cose gettate fuori da un negozio di dischi, diede poca importanza e

continuò il tragitto ritrovandosi a canticchiare:


“Aaah, ma è un canto braaasileeeroo…”


E intanto continuava a nevicare.





CONTINUA.


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